Ciudad Gomorra

XL REPUBBLICA | Gennaio – Febbraio 2013

«Qui c’è disprezzo per la vita. Questo posto mi ricorda Ciudad Juarez». Ciudad Juarez è la “città della morte”, la più pericolosa al mondo davanti a Caracas e New Orleans, terra di confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Quattromila cinquecento donne scomparse dal 1993 a oggi. Quattrocento sicuramente assassinate.
Il posto che le somiglia sono le Vele di Scampia e a parlare è Carlos Cruz. Un gigante alto quasi un metro e 90 per 130 kg, esattamente il mio doppio. Carlos era il capo di un esercito criminale di cinquemila ragazzi, che controllava 27 quartieri e 22 scuole. Sono le Pandillas, le migliaia di bande armate che infestano il Messico, la più potente narcodemocrazia esistente, dove la vita vale il costo di una pallottola. La sua storia sembra uscir fuori dalla pellicola di “City of god”, con la differenza che non ci troviamo in una favela di Rio de Janeiro, ma nel barrio di Rio Blanco. Città del Messico, come la mia Scampia è in guerra: 136.100 morti ammazzati dal 2006 a oggi. In media 53 omicidi al giorno. Un bilancio di gran lunga superiore alla guerra in Afghanistan.
È una mattina grigia e fredda a Napoli. Ci sono posti di blocco ovunque. La camorra non ha esitato ad uccidere un uomo all’interno di una scuola materna, dopo aver ammazzato per errore Pasquale Romano a Marianella, quartiere adiacente a Scampia, colpevole di essersi trovato al posto sbagliato, nel momento sbagliato. Saliamo le scale di questi alveari di cemento abbandonati, scansando frigoriferi, materassi, cessi spaccati, stracci, e intanto racconta. Carlos è il più piccolo di 5 fratelli di una famiglia normale. Sveglio. Forse toppo, iperattivo. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. E invece a sei anni viene assoldato, a sua insaputa, da un gruppo di spacciatori del quartiere, che gli prestano la bici e gli danno 5 pesos per portare pacchetti da una parte all’altra del barrio. A tredici anni entra nella pandilla dopo aver superato la prova: fare un giro di campo, inseguito dall’intera banda che bastona con canne di bambù. «Bastava farlo una volta, io di giri ne ho fatti due». Con i suoi, falsifica documenti, traffica armi rubate alla polizia, estorce denaro, svaligia appartamenti, sorride e precisa «solo quelli dei ricchi». Bisognava tenere il territorio, difenderlo dalle altre bande. Carlos diventa il capo assoluto di diverse pandilles, ma il prezzo è sempre più alto. «Nel 1987 eravamo ventitré, tre anni dopo eravamo rimasti solo in tre». Sul corpo ha ancora i segni della guerra: quattro ferite di arma da fuoco e un timpano rotto per le torture della polizia. Dentro ha altre ferite: «Io non ho amici della mia età, sono tutti morti». Lasciamo le vele e ci immergiamo in un flusso di facce, bancarelle di scarpe, maglie del Napoli, odori di frittura. «I mercatini poveri delle grandi città sono tutti uguali». Nell’aria gira la parodia napoletana di “Gangnam style”.
La rivoluzione personale di Carlos è cominciata nel 1991. «Ai miei compleanni c’erano sempre meno “fratelli”. A morire eravamo sempre e soltanto noi, che non eravamo figli di nessuno e non valevamo niente. Gli altri, i figli dei politici corrotti stavano sempre lì. Un progetto politico perfetto: noi ci ammazzavamo tra di noi e loro facevano affari con i narcotrafficanti». Decide così di contattare i capi delle altre bande, per iniziare un percorso di pace. In un primo momento è odiato e viene accusato d’essere un traditore, ma alla fine riesce a farsi ascoltare da gran parte dei suoi vecchi nemici e compagni. Oggi Carlos si definisce un pandillero costruttore di pace e con la sua associazione, Cauce Ciudadano, strappa i ragazzi dalla strada, mostrandogli che un’alternativa c’è sempre e che la rivoluzione, quella vera, non si fa con le armi ma con la coscienza. La scelta di Carlos a qualcuno non è andata giù e il passato lo viene a cercare. Carlos in Messico è minacciato di morte, ma non dalle organizzazioni criminali, ma dalla polizia corrotta che lo controlla e minaccia continuamente. In Italia, invece è protetto dall’associazione Libera che sta avviando una campagna, “Pace per il Messico”, contro il narcotraffico.
Nel casino del mercatino di Scampia, la mole e il colore della pelle di Carlos non passa inosservato. «Ma chi è chist?», domanda un passante e il fotografo, Mario Spada, non esita: «E’ un famoso cantante mariachis». Il gigante ride come un bambino, si immagina a cantare con la chitarra e il sombrero: «Non ho mai sentito bugia più grande». Per ricordo si compra un cornetto azzurro e scopro che tifa per il Napoli. Ovviamente perché è stata la squadra di D10S e magicamente riusciamo a capirci senza l’aiuto di Flavia, la nostra interprete. Gli chiedo cosa pensa di Messi: «la differenza più grande tra loro due, sta nel fatto che Maradona è cresciuto nelle favelas, ha la rabbia di chi ha conosciuto la povertà». Concordo. Messi è un marziano ma gli manca la cazzimma di Diego, che gli ha permesso di vincere, da solo, un mondiale.
A casa ci aspettano 2 metri di pizza, quella seria. Su youtube, mi mostra il video di “Sanguinaros del M1”, una canzone del “El Movimiento Alterado”. Una band finanziata dal cartello del capo dei capi del Narcotraffico messicano: El Chapo. Carlos mi spiega che il “narcocorrido” «è un genere musicale strumento di propaganda politica e sociale del crimine organizzato». Allora gli chiedo cosa pensa della lotta al narcotraffico promossa dall’ex presidente Calderon, che addirittura per la troppa corruzione delle forze dell’ordine si è servito dell’esercito. «La strategia di Calderon contro il crimine organizzato è una farsa, che si è conclusa a beneficio di un solo cartello», e conclude «speriamo che con il nuovo presidente le cose possano davvero cambiare». Penso alle sue speranze e alle nostre illusioni perdute, alle promesse ripetute ad ogni cambio di stagione politica, a come puntualmente Scampia sia ricordata, sotto campagna elettorale, per essere dimenticata all’indomani delle elezioni, come il sindaco de Magistris che proprio da qui e dalla legalità voleva partire. Stiamo ancora aspettando. Faccio sentire a Carlos la colonna sonora della criminalità organizzata napoletana e attacco con “‘O capoclan”, del neomelodico Nello Liberti. È sorpreso, non se l’aspettava. Quella litania di morte e falso onore continua a suonare mentre prendiamo un caffè fuori al balcone davanti a un maestoso Vesuvio innevato. Sembra la vecchia cartolina di Napoli, anche se i saluti provengono da Scampia, e al posto del pino, ci sono i palazzi della periferia nord, in cui è riscoppiata la faida. Ora a spaccarsi sono gli stessi scissionisti attaccati dai cosiddetti “girati” che si sono riavvicinati ai figli del vecchio capo: Paolo Di Lauro alias “Ciruzzo ‘o miollionario”. Una guerra voluta da boss appena ventenni assatanati di potere. La pizza e il mandolino ha lasciato il posto alla nuova oleografia: “Gomorra”. Carlos guarda lontano, e allargando le braccia mi dice: «Aquì nos tocò vivir», ovvero “a noi qui ci è toccato vivere”.