K.G.S. hip hop contro la camorra

XL REPUBBLICA | GENNAIO 2011

Sono le 3 del pomeriggio e fa freddo, quando con Mario imbocchiamo l’asse mediano da Scampia a bordo di una punto bianca tutta scassata. Questa strada provinciale è una discarica a cielo aperto: ai lati carcasse di frigoriferi, materassi, pneumatici, cessi, bidet e sacchetti di monnezza. In meno di 10 minuti l’aria umida e pungente annuncia l’inconfondibile puzza di merda delle bestie dal latte d’oro. Roghi e fumi neri ci accompagnano nel viaggio fino a Castel Volturno regalandoci la nostra quotidiana dose di veleni e diossina. Ricordo che vidi i “Kalifoo Ground Sistem” per la prima volta proprio a Castel Volturno quando aprirono il nostro concerto al “Festival dell’Impegno Civile”– il primo organizzato, da Libera, sui beni confiscati alle organizzazioni criminali – il 19 giugno del 2009. Per capire cosa significa “Kalifoo Ground” basta andare alle prime luci dell’alba sulle rotonde e le piazze di Giugliano, Licola, Aversa, Villa Literno e Scampia. Col freddo o la pioggia troveremo gli schiavi a giornata, i Kalifoo Ground, come li chiamano in Libia durante la loro permanenza prima di arrivare in Italia. Neri che faticano a nero per 14 -15 ore al giorno come braccianti o muratori. Portati dai caporali che in cambio pretendono la metà della loro già misera paga giornaliera: 50 €.
L’appuntamento è davanti a un ristorante che ha per nome il cognome del sindaco: Scalzone. Quello che recentemente ha dichiarato: «Gli immigrati vivono sulle nostre spalle, fosse per me farei come a Rosarno». «Lo abbiamo denunciato per calunnia, diffamazione e istigazione all’odio razziale», mi spiega Sandro Iovanella, dj e dub master della posse. Casertano doc, è il più giovane della band, 26 anni. Con lui c’è Gianluca Castaldi, milanese, cappellino nero con stella rossa. Ex fratello comboniano tornato in Italia dopo anni di missione in Africa, attualmente responsabile del centro di accoglienza per immigrati della Caritas di Caserta. Ascoltando la loro musica mi son venute in mente le parole di Nelson Mandela quando nella sua autobiografia scrive: “La singolare bellezza della melodia africana sta nella sua capacità di risollevare lo spirito anche quando racconta una storia triste”. Le canzoni dei K.G.S. sono sangue e rivolta. Il gruppo è nato dopo la strage di Castel Volturno del 18 settembre 2008, in cui sei immigrati furono uccisi dalla camorra di Casal di Principe. I neri si incazzarono, scesero in strada a protestare contro i camorristi e contro chi li chiamava spacciatori, insegnandoci che al Sistema si può dire: NO. Su ritmi in levare fondendo Raggae e Hip hop con refrain melodici e parti rap in inglese, italiano, francese, twi e julà, i Kalifoo raccontano le storie e le speranze dei clandestini. La musica si fa valvola di sfogo, megafono della sofferenza di un’intera comunità. La loro prima canzone è stata la cover di “Knockin´ on Heaven´s Door” di Bob Dylan contenuta nella demo autoprodotta a maggio di quest’anno. Ci raggiungono i due ghanesi del gruppo: Collins e Ben l’uomo-cellulare dal sorriso smagliante (persino nelle prove, quando rappa, non interrompe mai le telefonate). Lavora come lava piatti in un ristorante, ma ha un flow da fare invidia ai migliori rapper americani. Collins Volto segnato, osserva e parla poco. Bella la sua voce scura e tagliente. È l’unico senza permesso di soggiorno «Il mio hobby è collezionare decreti di espulsione, la police mi ferma ogni mattina al kalifoo di Qualiano, ormai siamo quasi amici», mi dice ridendo. Risaliamo in macchina per andare a Caserta nel loro quartier generale: il C.S.A. Ex canapificio di cui i K.G.S. sono la diretta espressione musicale. Due volte a settimana, dopo il lavoro, si riuniscono qui per provare. «Oggi i centri sociali nel migliore dei casi son diventati locali, l’Ex Canapificio invece è rimasto fedele alla sua ragion d’essere», dice Gianluca. Entrando capiamo il perché: 500 africani discutono in assemblea del loro primo sciopero contro il caporalato e di come continuare la lotta. Mario non smette di scattare. Mi sembra di assistere alla scena di Tyler Durden (in Fight Club) che arruola il suo esercito. Ma il nostro Tyler Durden viene dal Burkina Faso, lavora nelle piantagioni di tabacco e si chiama Zongo alias Capo Nero. Chiedo il perché di quel soprannome. Sandro mi racconta: «Zongo è uno dei pochi rifugiati politici, nel suo Paese era un sindacalista di fabbrica. Quando è arrivato a Rosarno si è ribellato al caporalato, diventando caporale di se stesso, portando a lavoro gli altri immigrati con un pulmino affittato. Ecco perché, per tutti, è il capo nero». Zongo è il cugino di Norbert Zongo, il direttore de “L’Indépendant”, assassinato dopo aver aperto un’inchiesta implicante il fratello dell’attuale presidente del Burkina Faso: Blaise Compaorè. Storie d’Africa: «Quel bastardo ha preso il potere uccidendo il presidente Thomas Sankara, il Che nero». Sono le cinque, Mario vuole fare ancora qualche foto di gruppo, così i ragazzi ci portano in via dei diavoli in cerca di una fatiscente casa abusiva che faccia da sfondo. In questo Castel Volturno offre l’imbarazzo della scelta. Ma arrivati a destinazione, Mario si accorge che la luce è fessa. Conviene ritornare domani. Allora ceniamo tutti insieme in una “connection house”, case in cui gli africani si ritrovano la sera per mangiare, guardare la tv, stare insieme. Un canale trasmette ininterrottamente il peggio della musica black made in Africa, merda neomelodica nera. Ci offrono il Kenkey: un sugo di verdure piccanti con dentro pesce fritto accompagnato da una sorta di pane. Mangiamo in fretta fa veramente cagare sto Kenkey. In macchina tra i cd ritrovo un vecchio disco di Alpha Blondy, dove c’è la bellissima: “Journalistes en Danger”, un omaggio che il cantante reggae ivoriano ha fatto a Norbert Zongo. Inserisco il cd e partiamo. Musica, occhi e odori intensi, eppure non riesco a smettere di pensare alle parole di Zongo: «abbiamo sbagliato barca, pensavamo di andare a Hollywood e ci siamo ritrovati a Castel Volturno».

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